Volkswagen lancia per il secondo anno un concorso per il miglior striscione calcistico nelle scuole. Un direttore marketing di un marchio di pneumatici afferma di voler "fare qualcosa per coinvolgere i bambini".
Finchè erano Coca Cola e McDonald a rivolgersi ai più giovani era tutto normale, ma ora anche marchi che con quell'età non hanno nulla a che fare ci si buttano.
E' l'età in cui si forma il ricordo di un marchio (chi si ricorda a quanti anni ha sentito un rumorino strano dal cruscotto di una Fiat?), e cominciare a far vedere una WW azzurra ad una seconda elementare forse farà vendere più Polo fra sei o sette anni.
Non so se funzioni in modo così automatico, ma la cosa non mi convince del tutto: vabbè allargare il target, ma lasciamo in pace sti bambini. aspettiamo che almeno si iscrivano a scuola guida, poi bombardiamoli pure.
martedì 26 febbraio 2008
Lasciate che i bambini vengano alla marca
Pubblicato da Unknown alle 01:35
Etichette: advertising, auto, pubblicità
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2 commenti:
Sulla scorta della nota canzone di Morandi in cui il povero Gianni nelle vesti di un papà qualunque rispondeva sempre di sì alle richieste via via sempre più fantasiose e impossibili del figlioletto con quell’ inciso ossessivo del bambino che recitava “me lo prendi papà”, indicherei, oltre all’obbiettivo della fidelizzazione dei consumatori in potenza attraverso la determinazione di una risonanza emotiva che dovrebbe accompagnarlo negli anni, anche la finalità di renderli dei piccoli agenti pubblicitari in seno alle famiglie, ottenendo che le loro richieste determinino gli acquisti degli adulti. Naturalmente condivido le riserve in merito a questo tipo di operazioni che sollevano una molteplicità di nodi problematici: primo fra tutti quello dei limiti etici (non è una parolaccia) di azioni di marketing e conseguenti messaggi pubblicitari che diventano sempre meno informativi e sempre più persuasivi, stabilendo l’obiettivo di influenzare e sedurre affiancando il prodotto a suggestioni, emozioni e stimoli capaci di generare, come voleva Roland Barthes, veri e propri mitologemi, una pseudocultura del consumo dissimulano sempre di più il proprio intento propagandistico. Si passa dalla informativa finalizzata a guidare l’acquisto alla evocazione di un universo immaginativo pervasivo della sfera emotiva capace di definire una precisa mentalità. Si comprende facilmente che orientare questo approccio nei confronti di soggetti in formazione, privi di un consolidato senso critico tradisce la volontà di un’azione tesa, come denunciava Debord, a ridurre e mediare ogni legame sociale attraverso la manipolazione consumistica dell’unica immagine trionfante della merce come simulacro feticistico della civiltà. Infatti, senza contare le subdole tecniche che instillano insicurezza e frustrazione nei bambini che non possono venire in possesso di un prodotto determinando una ferita narcisistica nei confronti di chi tra i coetanei il prodotto lo possiede, vi è il pericolo di una riduzione ad una mentalità materialistica, in senso deteriore, che lega valori e felicità al possesso di qualcosa senza il quale ci si sente inquieti incompleti, generando, in ultima istanza un conformismo diffuso con il conseguente sopravvento di un indistinto e omologante io desiderante su un io identitario realmente capace di scelte critiche. I processi appena descritti caricano di ulteriore responsabilità i genitori cui spetta in definitiva il compito di interpretare i reali bisogni di crescita dei figli contrastando forme di dipendenza e passivizzazione precoci che la società dello spettacolo prefigura. Gianni Moranti docet
Sono d'accordo. Davvero. ho letto. ho capito (quasi). e condivido. Una cosa soltanto... cosa sono i mitologemi? Se è una cosa brutta non ti azzardare a metterla di nuovo sul mio blog!
Ciao, ci sentiamo... mi raccomando! :)
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